Luca Perciballi – Di corpo, chitarra ed usanze.

Di Luca Perciballi sono venuto a conoscenza soltanto tramite la sua avventura in Maorooro insieme a Francesco Cigana, ed ho avuto la fortuna di trovarmi a recuperare quanto espresso finora trovandomi davanti ad unmusicista in movimento, con una forte personalità ed un suono proprio. Dopo aver ascoltato e scritto di Sacred Habits, il suo ultimo disco pubblicato da Kohlhaas, ho quindi deciso di scambiare quattro chiacchiere con lui.

SODAPOP: Ciao Luca, ho appena scoperto che Sacred Habits in realtà non ê il tuo primo album da solista, che risale invece al 2016 e si intitolava How to kill Complex Numbers. Da allora sei passato attraverso esperienze e collaborazioni per ritrovarti di nuovo in solo dopo 8 anni.
Quando hai capito fosse tempo per un nuovo lavoro personale? Perché Sacred Habits?

LUCA: How to kill complex numbers è stato un lavoro per me molto importante, il primo in cui ho sperimentato davvero e dove mi sono lasciato alle spalle le rigidità degli studi formali: avevo iniziato ad intraprendere la dimensione del solo con un concerto al Centro d’Arte degli Studenti di Padova nel 2015 e, in seguito alla vittoria del Premio Internazionale Giorgio Gaslini nel 2016, mi sono fatto forza e ho concepito e pubblicato il disco. Da allora ho sempre continuato a praticare il suonare in solo come una sorta di cantiere aperto sul mio linguaggio, sia strumentale che compositivo, una sorta di esercizio senza fine di affinamento e meditazione.
Gli anni hanno sedimentato esperienze, visioni e idee, portandomi al punto che certe strade non erano più percorribili, stavo quasi sviluppando un odio per il mio strumento e certe modalità di approcciarlo: ho deciso di ripartire dal solo per mettere in discussione e rielaborare la mia visione della chitarra, in primis smontandone le componenti (utilizzo speaker preparati ricavati da un amplificatore per rendere la chitarra uno strumento a percussione) e poi smontando la tecnica, cambiando il gesto strumentale grazie all’uso dei piedi (sui pedali e amplificati) come elemento generativo e della voce come elemento drammaturgico.
Sacred Habits è un rifermento a due letture importanti che mi hanno dato la cornice di studio per queste nuove pratiche. Il primo è Musica e trance di Gilbert Rouget che, nel trattare i riti di possessione in diversi contesti culturali, mi ha dato l’idea di lavorare sul concetto di rituale, di sacrificio/impegno fisico dell’officiante. La componente fisica, di movimento e connessione con una fatica comunicata e palpabile è un elemento portante della performance Sacred Habits: troppo spesso percepisco uno iato tra la densità concettuale di molta musica elettroacustica e l›assoluta immobilità e non coinvolgimento della figura del performer in scena.
Il secondo riferimento, quello che ha ispirato il titolo della perfomance, è il corpus di saggi che Pierre Hadot ha dedicato sia alla filosofia neoplatonica che a Wittgenstein, individuando una pratica comune ai due pensieri che ha definito esercizi spirituali, ovvero pratiche di ordine discorsivo , razionali o immaginative, destinata a modificare il modo di vivere o vedere il mondo in sé e negli altri. Le abitudini sacre del titolo alludono sia al ritualismo che all’idea di costruire un corpus di gesti musicali e fisici da cui trarre abitudini di studio e meditazione sul suono e la percezione.

SODAPOP: Nel precedente lavoro distinguevi le tracce fra lavori manuali (handwerk) e costellazioni, con un suono più lineare e morbido, posato. In Sacred Habits trovo ci sia in qualche modo più battaglia, più scavo. È stato un passaggio naturale?

LUCA: Una delle cose per cui penso di avere più istinto è la forma; sicuramente una delle cose a cui presto più attenzione in fase compositiva. Ogni lavoro ha, di conseguenza, una sua specifica struttura formale che lo caratterizza più di ogni altra cosa: How to kill complex numbers era costruito secondo l›alternanza tra handwerk (i brani composti) e constellation (i brani materici, rapsodici e improvvisati), disposti simmetricamente rispetto al brano centrale , una rilettura dello standard When I fall in Love.
Sacred Habits ha una struttura completamente diversa, concepita come episodi più o meno brevi di un grande rituale o, come lo ha definito Nazim Comunale, un’opera mondo. La battaglia a cui alludi penso sia data dalla tensione che serpeggia lungo tutto il lavoro e che, semplicemente, sparisce una volta il rituale è finito; non è stata concepita a tavolino ma mi sono fidato esclusivamente della mia intuizione formale. Non so se è un segno di maturità acquisita ma, ancora oggi dopo più di un anno dalla registrazione, mi sembra la forma necessaria al lavoro!

SODAPOP: Come Maorooro su Dissipatio e come solista su Kohlhaas, stai facendo strike fra le mie etichette preferite in Italia, ti manca un disco su Torto e poi ci siamo. Visto il periodo “liquido” che tipo di supporto ci si aspetta da un’etichetta discografica? Cosa ricerca un musicista come te in tal senso? Hai avuto un seguito durante la lavorazione del disco oppure il contatto è avvenuto a rito già concluso?

LUCA: Non vorrei addentrarmi in considerazioni tecniche o socio-economiche rispetto allo stato della discografia, specie nel campo della musica di ricerca, ma mi permetto di fare solo qualche considerazione personale: il disco rimane, anche nell’era digitale, un momento di confronto importante di chi lo produce con la propria poetica e, per tanto, va concepito e fruito come un’opera unitaria; che questo non avvenga quasi mai è un discorso secondario, che poco si sposa con la musica di ricerca. Fatta questa precisazione mi permetto di erigere un altare a Kohlhaas e Marco Segabinazzi che hanno supportato il lavoro in modo eccellente! In primis sono stati veri produttori esecutivi del lavoro, cosa da non dare per scontata (anche Dissipatio si comporta allo stesso modo), fornendo supporto economico e di comunicazione. L’aspetto più importante è stato quello di supporto artistico, coinvolgendomi in scelte comunicative e proponendo il design degli interni (curato da Nicola Chemotti Beutel) delle copie fisiche e la bellissima copertina. Senza Marco non avrei mai avuto la straordinaria foto di Fabio Barile, che ringrazio per l’entusiasmo con cui ha aderito al progetto. Trovo ancora importante in contesti di musica di ricerca avere un supporto fisico curato, un oggetto pieno di cura come il contenuto musicale che possa essere acquistato (magari stampato in edizione limitata) dagli appassionati e che sancisca fisicamente il rilascio di un nuovo lavoro.

SODAPOP: Ho trovato Sacred Habits un disco molto materico, fisico, poco soggeto alla fuga (forse solo il nono brano, che infatti è quello che più mi ha ricordato il lavoro con Francesco). Che tipi di musicista sei in solo? Cosa ricercavi tramite queste registrazioni?

LUCA: Ogni brano di Sacred Habits è un esercizio concentrato su un solo gesto del mio vocabolario musicale/gestuale, una mediazione concentrata che vede l’esclusivo uso di quel gesto/materiale musicale/oggetto atto a produrlo. Penso che il senso di fisicità derivi da quello.
La registrazione, in questo caso, non è che una fotografia delle pratiche di quel giorno, organizzate successivamente secondo una drammaturgia appositamente composta per il disco, secondo i modi del romanzo o del montaggio cinematografico.
Dal vivo sono più soggetto al coinvolgimento fisico ed emotivo in comunicazione circolare con il pubblico presente: la forma è molto più flessibile e indulgente rispetto alle risposte del me performer, dell’ambiente e da ciò a cui il pubblico reagisce maggiormente.

SODAPOP: Hai registrato con Davide Cristiani e Simone Coen, che ha poi curato anche mix e master nel suo studio. Che tipo di scelta ti ha portato verso di loro? Qual’era il risultato che volevi ottenere?

LUCA: Essendo un lavoro molto delicato ho deciso da subito di avvalermi della collaborazione e della sapienza di un vero maestro come Simone Coen, un amico e un vero genio nel suo lavoro.
Ritengo che la profonda conoscenza che ha Simone delle tecniche di ripresa sia stata fondamentale nel supplire alla mancanza dell’elemento visivo e corporeo che anima il lavoro, elemento trascinante delle performance live. La cura con cui ha microfonato ogni dettaglio del set e della stanza ha conferito un carattere di tridimensionalità alle riprese che ci ha permesso di non far rimpiangere la corporeità. Non ricordo esattamente il numero di microfoni utilizzati ma posso garantire che sono tanti!
Naturale conseguenza di questo dispiego di forze è stato affidare a lui ogni dettaglio della produzione, mix e mastering compresi.
Davide Cristiani, altro amico di vecchia data, è stato un aiuto prezioso sia perché abbiamo fatto tutto al suo Groundfloor studio di Modena, sia per aver aiutato Simone a risolvere ogni problema tecnico possibile, rendendo la sessione di registrazione quanto di più semplice si potesse immaginare.
SODAPOP: Che tipo di ascoltatore, lettore, spettatore sei? Prendi ispirazione da altre arti e da altri media oppure attingi al mondo che ti circonda ed al tuo mondo interiore?

LUCA: Che domanda difficile!
L’ispirazione é un concetto fumoso, un poco religioso che non mi fa impazzire: scelgo di citare Bernard Frize, artista visivo che mi piace parecchio, che descrive il suo processo come ” guardare i materiali agire e provare ad interagire”. Penso che il processo sia solo quello.
Come persona (e non solo come operatore culturale) mi nutro di tantissimi tipi di musica (magari distante dalla mia come I Number Pieces di John Cage fatti da Apartament House), arte contemporanea, arte antica, cinema, libri.
Ultimamente, lavorando molto con la danza, sono affascinato dai modi del corpo e della peculiare capacità dei danzatori di imparare una partitura eseguendola in tempo reale. Se questa può essere chiamata fonte di ispirazione direi sia quella del momento.

SODAPOP: Porterai Sacred Habits dal vivo? Hai già delle date?

LUCA: Sono stato molto fortunato con questo progetto perché il lavoro è già stato portato live per un anno e mezzo, praticamente dal mese successivo alla registrazione (Gennaio 2023) debuttando in una cornice prestigiosa come Angelica Festival al Teatro S.Leonardo a Bologna, cosa di cui ringrazio Massimo Simonini. Da lì mi sono mosso ininterrottamente in posti ugualmente prestigiosi, come Tempo Reale a Firenze,
Area Sismica,Parmafrontiere e altri più piccoli tra club, gallerie d’arte e piccole rassegne, collezionando più di 30 date in un anno e mezzo. Ora prenderò un po’ di mesi di pausa per dedicarmi agli altri progetti, anche come sideman, che mi vedono coinvolto e preparare con calma una serie di date in Europa (Portogallo, Svizzera, Germania, Francia) su cui non voglio sbilanciarmi troppo perché in divenire. L’uscita del disco mi permetterà di riordinare anche l’archivio video delle performance di quest’ultimo anno in attesa di riportarne una (già) nuova versione in giro per la fine dell’anno e quello successivo.

SODAPOP: Qual è il futuro prossimo di Luca Perciballi? Progetti, desideri, visioni?

LUCA: Oltre a stare già preparando il nuovo capitolo di Sacred Habits, sto lavorando a numerosi progetti: ho davanti un’estate concentrata principalmente sul lavoro a progetti altrui perché sarò in giro con la compagnia Nexus di Simona Bertozzi, artista immensa che chiamo affettuosamente il mio ultimo insegnante di composizione, con cui abbiamo creato Onde, da Virginia Woolf che mi vede autore delle musiche e performer in scena. Lavorerò con il collettivo di Bluering improvisers, con i progetti di Tobia Bondesan, Roberto Bonati e con il duo Tapestry, progetto concepito insieme a Michele Bondesan e uscito per Never Anything Record lo scorso Dicembre.
Sul versante della produzione entrerò in residenza a breve con il mio trio Organic Gestures (con Andrea Grossi e Andrea Grillini) per iniziare a lavorare alle nuove composizioni, ultimerò le registrazioni del disco di Onde e curerò l’editing delle monumentali registrazioni dell’ultimo lavoro di The Black Box Theory, duo che divido con Ivan Valentini, per l’occasione allargato a grande gruppo con l’apporto di Nelide Bandello, Francesco Guerri e Paolo Botti.
Sto cercando di rimanere quanto più possibile concentrato sul pensiero musicale e sulla sua condivisione tra pubblico e colleghi: trovo sia nostra responsabilità metterci nelle migliori condizioni ambientali, psicologiche, economiche e sociali, per rimanere focalizzati sulle nostre pratiche. Non saranno importanti in sé stesse, a volte i lavori sono buoni a volte meno, ma producono una comunità di individui che pensano, si interrogano e condividono: questo per me è anche un ideale sociale da perseguire con la massima dedizione ed umiltà, un pizzico di ironiaaaaaa1 e (magari) qualche ora di sonno in più.